di Annarita Favilla
LUCERA – Il Festival della Cultura e dello Spettacolo è stata la recente rassegna di casa Palazzo D’Auria Secondo, suddivisa in quattro capitoli dedicati a musica, satira, teatro e gastronomia e conclusasi lo scorso venerdì 26 settembre con lo spettacolo “La parmigiana e la rivoluzione”: un evento che ha in qualche modo toccato i tre temi precedenti, coniugandoli però tutti con la sviscerata – anzi, viscerale – passione per il cibo popolare del suo protagonista. Don Pasta è dj, scrittore, esperto di gastronomia, emigrante seppur salentino di nascita, “officiante del tempo perso”, e sul palco/palmento del bel cortile esterno di Palazzo D’Auria ha issato il suo pulpito laico, costituito da una postazione da cucina che è insieme cassa di risonanza degli odori ma soprattutto dei suoni degli ingredienti dimenticati e degli sforzi della composizione sapiente. Coadiuvato dai musicisti Valerio Daniele (alla chitarra elettrica) e Giorgio Distante (alla tromba), ripercorrendo con loro le suggestioni – anche queste – mistiche di un Coltrane e di un Waits, ha intessuto racconti personali ma paradigmatici di uno stile di vita in via d’estinzione, puntellati da scene che sono come diapositive di un mondo interiore da custodire e tramandare: i lunghi viaggi in macchina oltre-frontiera con la passata nostrana che “non passa”; la storia degli agrodolci capperi di Pantelleria, simbolo di un patrimonio culturale da salvare, fatto di duro lavoro di raccolta che qualcuno è ancora disposto a intraprendere; la potenza dell’olio, che attutisce tutti i mali come pure lo stridere delle porte nelle carceri; la farina e le uova “che scappano”, da fermare in tempo per farne pasta soffice e ridente.
Daniele De Michele, suo vero nome, ha offerto al pubblico presente il proprio sguardo di riflessione particolare sul cibo come primordiale produttore e moltiplicatore di riti, storie, relazioni umane, oltre che di puri piaceri legati ai sensi. Ci saremmo aspettati l’ennesimo chef o cuoco provetto tutto obbediente all’esser precisi e maniacali nell’arte del light e (insomma) del vacuo, alle prese con qualche strana-mini- carina pallida portata, invece Don Pasta è il suo esatto opposto, perché è l’incallito militante dello strutto, lo strenuo difensore della cucina brutta sporca e cattiva, quella ipercalorica e unta dalla quale vogliono tenerci alla larga. E’ col cuore che Don Pasta confessa il suo impegno contro le mode e le aberrazioni più recenti del mondo della cucina, perché non senza emozione svela che da quando è padre ha compreso l’importanza di questi discorsi, e la violenza di certi linguaggi, e perché da sempre gli italiani, e le italiane in particolare, hanno imparato chi erano e cosa volevano diventare cucinando e condividendo un buon pasto. “Come si fa a vivere in un Paese in cui, per legge, è vietato portare in classe i dolci fatti in casa? – dice – Ma come si fa! Non si può dare ai bimbi della plastica da mangiare…Io mi rifiuto!”.
“Prendetevi il tempo per cucinare alle persone care, per offrire qualcosa che si ama a qualcuno che si ama”; Don Pasta ha concluso la serata con parole sorprendentemente toccanti, estrapolando un brano dalla sua prossima pubblicazione, “ArtusiRemix”, e infarcendo di gesti densi di corporeità la sua ode al cibo buono del passato, che vive ancora in tutti noi ed è segno inconfondibile di quelle radici forti che, sole, sono in grado di regalarci un futuro sereno. Ogni scelta legata a ciò che mettiamo in tavola è un atto politico, forse oggi addirittura il più politico degli atti, compresa quella della condivisione entusiasta di prodotti creati con le proprie mani a partire da materie prime naturali, consigli e segreti bisbigliati, e quindi della promozione di un nuovo spirito di comunità e comunione di sensi. Perché anche noi “terroni”, notoriamente più tradizionalisti, ci lasciamo tradire e pecchiamo in campo culinario; come quando ci viene quell’improvvisa voglia di sushi e dimentichiamo che non è poi chissà quale novità in confronto alle cozze o ai ricci di mare crudi. E’ scritto nella quarta di copertina del suo libro “La parmigiana e la rivoluzione”, dal quale ha preso il nome lo spettacolo di venerdì sera: “Per questo, Don Pasta è arrivato alla conclusione che a tavola la forchetta va sempre messa alla sinistra del piatto”. E allora: che le forze naturali e inebrianti dello strutto, dell’olio, del fritto e del soffritto siano con tutti noi. Ora e sempre, Resistenza.
E a proposito di gusto e piaceri (“convinti che l’ebrezza non sia in un sorso ingordo ma nell’assaggio lieve del nettare degli Déi”), durante la serata è stato possibile degustare il Nero di Troia Casa Primis personalizzato con l’etichetta d’autore firmata dall’artista lucerino Giuseppe Petrilli, che ha proposto la sua interpretazione primitiva e sensuale – “Circle” il titolo del disegno – del conceptalchemico“Rubedo, Rosso come l’oro” ideato dalla coordinatrice di questo interessante progetto grafico Francesca Di Gioia.